Disturbi psicosomatici
La psicosomatica è un ampio campo della patologia che si colloca a metà strada tra la medicina e la psicologia. Indaga la relazione tra mente e corpo, ovvero tra il mondo emozionale ed affettivo e il soma.
Nello specifico, la psicosomatica ha lo scopo di rilevare e comprendere gli effetti negativi che la psiche, la mente, produce sul soma, il corpo.
I disturbi psicosomatici si possono considerare malattie vere e proprie che comportano danni a livello organico e che sono causate o aggravate da fattori emozionali.
Il disturbo psicosomatico si definisce come la risposta fisica ad un disagio psicologico.
In particolare, situazioni di stress emotivo, ansia patologica, paura costante o di forte preoccupazione possono portare il fisico ad esprimere, sottoforma di campanello di allarme, un disagio più profondo.
I sintomi psicosomatici non derivano né da una condizione medica generale né dagli effetti diretti di una sostanza, ma dalla presenza di un disagio mentale.
I sintomi psicosomatici coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.
Le emozioni negative, come il risentimento, il rimpianto e la preoccupazione possono mantenere il sistema nervoso autonomo (sistema simpatico) in uno stato di eccitazione. Nonché il corpo in una condizione di emergenza continua, a volte per un tempo più lungo di quello che l’organismo è in grado di sopportare.
I pensieri troppo angosciosi, quindi, possono mantenere il sistema nervoso autonomo in uno stato di attivazione persistente il quale può provocare dei danni agli organi più deboli.
I disturbi psicosomatici si possono presentare a carico di tutti gli organi e apparati del corpo umano.
Disturbi di tipo psicosomatico possono manifestarsi:
Infine i disturbi psicosomatici possono esprimersi anche sottoforma di problemi associati all’alimentazione.
Tra i fattori di rischio, scatenanti i sintomi psicosomatici, vi sono:
– temperamento
– personalità
– stress psicosociale
– eventi di vita
– disturbi psicologici sottostanti
Sintomi psicosomatici sono comuni nelle varie forme di depressione e in quasi tutti i disturbi d’ansia. Ma esistono dei disturbi psicosomatici veri e propri in assenza di altri sintomi di natura psicologica. Questi rendono più difficile, per il soggetto, imputare il malessere fisico ad un problema psicologico piuttosto che ad un malfunzionamento organico.
La terapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata molto efficace per questo tipo di disturbi. In particolare la terapia cognitivo-comportamentale combina due forme di terapia: la terapia comportamentale e la terapia cognitiva.
La terapia comportamentale aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni, fisiche, emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento di nuove modalità di reazione. Si avvale anche di tecniche di rilassamento quali il training autogeno e il rilassamento muscolare progressivo.
La terapia cognitiva aiuta ad individuare e ristrutturare i pensieri ricorrenti, gli schemi fissi di ragionamento e di interpretazione della realtà, che sono concomitanti alle reazioni fisiche, emotive e comportamentali che creano disagio.
Alcuni tra i disturbi psicosomatici più comuni sono (clicca per approfondire):
Lo stress è la risposta psicofisica ad una quantità di compiti emotivi, cognitivi o sociali percepiti dalla persona come eccessivi. Lo stress eccessivo può facilmente portare numerosi disturbi da stress.
Il termine stress fu impiegato per la prima volta nel 1936 da Hans Selye. Questi lo definì come “risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso”. In base al modello di Selye, il processo stressogeno si compone di tre fasi distinte:
1 – fase di allarme: il soggetto segnala l’esubero di doveri e mette in moto le risorse per adempierli;
2 – fase di resistenza: il soggetto stabilizza le sue condizioni e si adatta al nuovo tenore di richieste;
3 – fase di esaurimento: in questa fase si registra la caduta delle difese e la successiva comparsa di sintomi fisici, fisiologici ed emotivi.
La durata dell’evento stressante porta a distinguere lo stress in due categorie. Quello acuto, che si verifica una sola volta e in un lasso di tempo limitato; quello cronico, cioè quando lo stimolo è di lunga durata.
Gli stress cronici possono essere ulteriormente distinti in stress cronici intermittenti e stress cronici propriamente detti. I primi si presentano ad intervalli regolari, hanno una durata limitata, e sono quindi più o meno prevedibili. I secondi sono invece rappresentati da situazioni di lunga durata che investono l’esistenza di una persona. Diventano stressanti nel momento in cui rappresentano un ostacolo costante al perseguimento dei propri obiettivi.
Oltre alla durata, è importante anche la natura dello stressor. Possiamo avere stressor benefici, detti eustress, che danno tono e vitalità all’organismo. Ma anche stressor nocivi, detti distress, che possono portare ad un abbassamento delle difese immunitarie.
Lo stress può essere provocato da:
I sintomi da stress possono essere suddivisi in quattro categorie.
I disturbi psicologici correlati allo stress sono: Disturbo post traumatico da stress, disturbo acuto da stress, disturbi psicosomatici (asma bronchiale, ipertensione arteriosa, colite, eczema cutaneo, alopecia psicogena, ulcera gastro-duodenale), fibromialgia, depressione, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, disturbi della sfera sessuale, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia).
Un livello elevato di stress può essere ridotto facendo ricorso a tecniche di rilassamento, meditazione mindfulness, neurofeedback, e sopratutto alla psicoterapia cognitivo comportamentale.
Le tecniche di rilassamento mirano a controllare e gestire le risposte fisiologiche. Imparando a controllare queste reazioni, l’individuo può sfruttarle a suo vantaggio per la “cura dello stress“, raggiungendo uno stato di rilassamento piuttosto che di tensione. Le tecniche di rilassamento più efficaci sono: il Jacobson, il training autogeno, il Biofeedback.
La psicoterapia cognitivo comportamentale, una tra le migliori opzioni, consente all’individuo di imparare i metodi di gestione dell’ansia e per modificare i comportamenti disfunzionali. Tale approccio si focalizza sulle difficoltà presenti “qui ed ora” così da poter valutare il quadro dei comportamenti esterni o interni da modificare per curare lo stress. Ciò implica che la cura dello stress passa attraverso l’esame dei punti di forza e delle carenze del soggetto. E’ necessaria un’analisi accurata degli avvenimenti che precedono e seguono il verificarsi di ogni comportamento disadattivo.
Inizialmente si individuano gli schemi fissi e i pensieri ricorrenti che mantengono il quadro sintomatologico tipico dello stress. Successivamente si punta alla correzione e all’arricchimento di questi schemi e pensieri, al fine di correggerli ed integrarli con pensieri più funzionali per il benessere del soggetto.
L’approccio cognitivo comportamentale, inoltre, aiuta l’individuo nell’apprendimento di nuove modalità di reazione emotiva e comportamentale.
BIBLIOGRAFIA
Alla base del Disturbo di Somatizzazione vi sono lamentele fisiche ricorrenti e molteplici, della durata di diversi mesi o anni, che portano chi ne è affetto a richiedere le cure dei medici, ma che apparentemente non sembrano avere una causa organica.
Secondo il Manuale dei Disturbi Mentali, una persona è affetta da disturbo di somatizzazione (o più semplicemente tende a somatizzare) se lamenta nel corso della sua vita sintomi dolorosi (per es., cefalea, mal di schiena, articolazioni doloranti), due sintomi gastrointestinali (per es., colite, diarrea, nausea), un sintomo sessuale che non sia il solo dolore (per es., dolori mestruali, indifferenza sessuale, disfunzioni dell’erezione) e un sintomo pseudo-neurologico (per es., sintomi di conversione, come deficit della coordinazione o dell’equilibrio, vertigini, paralisi o ipostenia localizzate, difficoltà a deglutire o nodo alla gola).
Le lamentele fisiche nel disturbo di somatizzazione (ovvero di chi tende a somatizzare) devono iniziare prima dei 30 anni, manifestarsi per almeno alcuni anni e non possono essere pienamente spiegate con nessuna condizione medica generale conosciuta o con gli effetti diretti di una sostanza. Se si manifestano in presenza di una condizione medica generale, le lamentele fisiche o la menomazione sociale e lavorativa che ne consegue risultano eccessive rispetto a quanto ci si aspetterebbe dalla anamnesi, dall’esame fisico e dai reperti di laboratorio.
Il disturbo di somatizzazione ha un decorso cronico ma fluttuante, che raramente presenta remissioni complete. In chi tende a somatizzare, il tipo e la frequenza dei sintomi psicosomatici possono differire da una cultura all’altra. Per esempio, mani e piedi che bruciano, oppure l’esperienza non delirante di avere vermi nella testa, o formiche che camminano sotto la pelle rappresentano sintomi più comuni in Africa e nel Sud dell’Asia rispetto al Nord America.
I pazienti che tendono a somatizzare tendono anche a presentare i loro problemi in modo drammatico, vago o esagerato, o come parte di una lunga e complicata storia clinica. Ansia e depressione sono molto comuni e possono costituire la ragione per cui giungono all’osservazione psichiatrica.
Quando sono presenti sintomi di somatizzazione, possono esserci una vasta gamma di problemi interpersonali e comportamentali, quali assenteismo, scarso rendimento sul lavoro, difficoltà coniugali, comportamento impulsivo e antisociale, minacce e tentativi di suicidio.
Su base psicosomatica si possono manifestare una lunga serie di problematiche fisiche tendenzialmente croniche e che non rispondono alle terapie mediche (vedi disturbi psicosomatici – psicosomatica).
La caratteristica essenziale della ipocondria è la preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una grave malattia. Questa è solitamente basata sulla errata interpretazione di uno o più segni o sintomi fisici.
Si può parlare di ansia di malattia (o paura delle malattie), ovviamente, solo se una valutazione medica completa ha escluso qualunque condizione medica che possa spiegare pienamente i segni o sintomi fisici. Può comunque esistere un’ansia eccessiva di malattia anche quando è presente una malattia organica non grave.
L’aspetto principale dell’ipocondria è che la paura o la convinzione ingiustificate di avere una malattia persistono nonostante le rassicurazioni mediche.
I sintomi dell’ipocondria sono riconducibili a preoccupazioni nei confronti di:
La persona attribuisce questi sintomi o segni alla malattia sospettata ed è molto preoccupata per il loro significato e per la loro causa. Nell’ansia di malattia (detta anche fobia delle malattie), le preoccupazioni possono riguardare numerosi apparati, in momenti diversi o simultaneamente.
In alternativa ci può essere preoccupazione per un organo specifico o per una singola malattia (per es. la paura delle malattie cardiache).
Visite mediche ripetute, esami diagnostici e rassicurazioni da parte dei medici, servono poco ad alleviare la preoccupazione concernente la malattia o la sofferenza fisica. Per esempio, un soggetto preoccupato di avere una malattia cardiaca non si sentirà rassicurato dalla ripetuta negatività dei reperti delle visite mediche, dell’ECG, o persino della angiografia cardiaca.
I soggetti ipocondriaci possono allarmarsi se leggono o sentono parlare di una malattia. M anche se vengono a sapere che qualcuno si è ammalato, o a causa di osservazioni, sensazioni, o eventi che riguardano il loro corpo.
Per chi soffre di ipocondria, la paura delle malattie spesso diviene per il soggetto un elemento centrale della immagine di sé, un argomento abituale di conversazione, e un modo di rispondere agli stress della vita.
Spesso nell’ipocondria la storia medica viene presentata con dovizie di dettagli e assai estesamente. Sono comuni “l’andare per medici” e il deterioramento della relazione medico-paziente, con frustrazioni e risentimento reciproci.
I soggetti con paura delle malattie spesso ritengono di non ricevere le cure appropriate. Possono opporsi strenuamente agli inviti a rivolgersi ai servizi psicologici.
Complicazioni possono derivare dalle ripetute procedure diagnostiche, che possono di per sé comportare dei rischi e che sono costose.
Tuttavia, proprio in quanto questi soggetti hanno una storia di lamentele multiple senza una chiara base fisica, c’è il rischio che ricevano valutazioni superficiali. Come nella favola “al lupo al lupo” può quindi venir trascurata la presenza di una condizione medica generale quando presente.
Le relazioni sociali vengono sconvolte per il fatto che il soggetto che ha i sintomi dell’ipocondria è preoccupato della propria condizione e spesso si aspetta considerazione e trattamento speciali.
La vita familiare può diventare disturbata poiché viene focalizzata intorno al benessere fisico del soggetto. Possono non esserci effetti sul funzionamento lavorativo dell’individuo se riesce a limitare l’espressione delle preoccupazioni ipocondriache al di fuori dell’ambiente lavorativo. Più spesso la preoccupazione interferisce con le prestazioni e causa assenze dal lavoro. Nei casi più gravi, il soggetto ipocondriaco può divenire un completo invalido per le proprie paure delle malattie.
Malattie gravi, specialmente nell’infanzia, ed esperienze pregresse di malattia di un membro della famiglia sono facilmente associate con il manifestarsi dei sintomi di ipocondria.
Si ritiene che certi fattori psico-sociali stressanti, in particolare la morte di qualche persona vicina, possano in alcuni casi precipitare la fobia delle malattie.
Il disturbo risulta equamente distribuito tra maschi e femmine. E’ sconosciuta la percentuale di diffusione dei sintomi di ipocondria nella popolazione generale, ma nella pratica medica generale va dal 4 al 9%.
La paura delle malattie può esordire a qualunque età, ma si pensa che l’età più comune di esordio sia la prima età adulta. Il decorso è solitamente cronico, con i sintomi che vanno e vengono, ma talora si verifica una completa remissione dell’ipocondria.
A causa della sua cronicità alcuni ritengono che il disturbo ipocondriaco sia soprattutto espressione di tratti di carattere (cioè preoccupazioni di lunga durata riguardanti i problemi fisici e la focalizzazione sui sintomi somatici).
E’ importante distinguere l’ansia di malattia dal disturbo ossessivo-compulsivo da contaminazione. Questo è caratterizzato non tanto dal timore di avere una malattia, ma dalla paura eccessiva e irrazionale di ammalarsi o di far ammalare qualcun altro tramite contagio. Ne conseguono, in genere, rituali di lavaggio e evitamenti volti a scongiurare tali paure.
La psicoterapia è una disciplina molto poco omogenea; esistono decine di forme di psicoterapia individuale, familiare, di coppia e di gruppo.
Nella cura dell’ipocondria, la forma di psicoterapia che la ricerca scientifica ha dimostrato essere più efficace, nei più brevi tempi possibile, è la “cognitivo-comportamentale“.
Si tratta di una psicoterapia breve, a cadenza solitamente settimanale, in cui il paziente svolge un ruolo attivo nella soluzione del proprio problema. Insieme al terapeuta, si concentra sull’apprendimento di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali, nell’intento di spezzare i circoli viziosi dell‘ansia per la salute.
In ogni caso la cura dell’ipocondria può risultare particolarmente difficoltosa, in quanto i soggetti non sono mai del tutto convinti che la causa dei loro mali sia soltanto di tipo psicologico.
Generalmente la psicoterapia è possibile in quei casi in cui la persona si preoccupa incessantemente di avere delle malattie, ma si rende conto, almeno in parte, che le sue preoccupazioni sono eccessive e infondate.
La cura farmacologica dell’ipocondria, ammesso che la persona accetti di prendere dei farmaci senza temere che arrechino dei danni al proprio organismo, si basa fondamentalmente sugli antidepressivi, sia triciclici che SSRI.
Quest’ultima classe presenta, rispetto alle precedenti, una maggiore maneggevolezza e minori effetti collaterali.
Dato che l’ipocondria viene spesso assimilata al disturbo ossessivo-compulsivo, considerando le preoccupazioni del paziente come delle ossessioni di malattia, la terapia farmacologica rispecchia le linee guida per tale disturbo. Si impiegano quindo alti dosaggi di antidepressivi ad azione serotoninergica assunti per periodi prolungati.
Nelle forme lievi la prescrizione di sole benzodiazepine può essere sufficiente, ma generalmente non costituisce una forma di terapia dell’ipocondria e ottiene soltanto di placare l’ansia a breve termine.
La fibromialgia è una malattia reumatica ad eziologia sconosciuta. E’ caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico diffuso e da altri sintomi a carico di numerosi organi e apparati.
Fino a pochi anni fa, la diagnosi era posta soltanto in presenza di dolore muscolo-scheletrico diffuso da almeno 3 mesi e di almeno 11 aree elettive di dolorabilità. Più recentemente, è stata data maggiore importanza ai sintomi extrascheletrici, ad esempio disturbi del sonno, affaticabilità, problemi di ideazione e/o memoria.
Il termine fibromialgia deriva dal latino fibra (fibra) e dal greco myo (muscolo) unito ad algos (dolore) e sta a indicare una condizione di dolore che interessa principalmente i muscoli e le loro inserzioni tendinee, i legamenti e i tessuti periarticolari.
Oltre al dolore, i pazienti fibromialgici riferiscono intensa stanchezza e affaticabilità, unitamente a una sintomatologia varia, che può quindi differire molto da soggetto a soggetto.
La sindrome fibromialgica si manifesta principalmente con le seguenti sensazioni:
Mal di testa, emicrania, vertigini, extrasistole, crampi, parestesie, formicolio o intorpidimento di mani, piedi, braccia o gambe, disturbi d’ansia e depressivi, difficoltà di concentrazione, di memoria, di ricordare parole o nomi (fenomeno chiamato ‘fibro frog’) sono le altre manifestazioni sintomatologiche più spesso associate alla fibromialgia.
Non ci sono esami clinici di laboratorio che dimostrino la presenza della fibromialgia. Pertanto, la diagnosi è essenzialmente clinica e viene fatta dallo specialista con semplici manovre di digitopressione.
La tensione muscolare si manifesta in alcuni punti precisi del corpo, che sono detti “tender points” o “punti sensibili”. Essi sono una caratteristica specifica della fibromialgia. Quindi, per fare diagnosi, occorre che risultino dolenti alla pressione delle dita del medico almeno 11 dei 18 “punti sensibili”.
Il paziente deve riferire dolori diffusi da almeno tre mesi, rigidità muscolare soprattutto mattutina, stanchezza cronica, crampi, parestesie.
Nel 2010 l’American College of Rheumatoloy ha proposto nuovi criteri diagnostici che si basano sulla presenza di sintomi associati al dolore. Astenia, disturbi di tipo cognitivo, disturbi del sonno e difficoltà nello svolgere una qualsiasi attività, comprese le normali attività quotidiane.
I nuovi criteri per la fibromialgia propongono, quindi, l’utilizzo di scale di valutazione specifiche. Esse permettono di valutare sia l’intensità del dolore, attraverso l’indice di dolore diffuso (Widespread Pain Index, WPI), sia la gravità delle altre manifestazioni cliniche caratteristiche della fibromialgia, attraverso la scala di gravità dei sintomi (Sympton Severity Scale).
Visto che tutti gli esami clinici mostravano esiti negativi, negli anni ’40 la fibromialgia venne considerata un disturbo di origine unicamente psicologica. Fu inquadrato allo stesso livello di una somatizzazione. L’ipotesi di una eziologia psicologica ha avuto per molto tempo una forte credibilità. Ancora oggi, nonostante i recenti dati di ricerca, continua ad avere la sua influenza.
Gli esami effettuati con i sistemi di neuro-imaging mostrano una iperattività del sistema nervoso simpatico. Essa determina una ipervascolarizzazione dei tender points e una diminuzione del flusso cerebrale nelle aree responsabili della trasmissione e della modulazione del dolore.
Questo potrebbe essere la spiegazione dell’iperalgesia che i pazienti fibromialgici sperimentano. Ciò in quanto il malfunzionamento di queste aree cerebrali porta ad una errata interpretazione degli stimoli dolorosi.
Inoltre, la ricerca ha evidenziato alterazioni di numerosi neurotrasmettitori tra cui la serotonina, la noradrenalina e la dopamina. Essi sono coinvolti nella modulazione del dolore e nella regolazione del sonno.
I soggetti fibromialgici hanno una amplificata percezione del dolore, fenomeno definito allodinia. La persona percepisce cioè uno stimolo innocuo come doloroso. Gli esperti concordano sul fatto che l’allodinia sia dovuta a una sensibilizzazione centrale. In generale, la fibromialgia sembrerebbe dunque legata ad una disfunzione cerebrale di elaborazione del dolore.
In pratica, non è ancora sufficientemente chiaro se sono fattori psicologici, come ansia, stress, tono dell’umore, percezione di auto-efficacia nel controllo del dolore, strategie di coping a generare le alterazioni cerebrali oppure se queste alterazioni provochino come effetto secondario un malessere psicologico.
Anche se non ci sono abbastanza evidenze per confermare o disconfermare queste ipotesi, è indubbio che i fattori psicologici influiscano in maniera significativa sulla sintomatologia dolorosa. E’ noto, infatti, come un continuo stato di allarme, di ansia e di tensione ma anche un senso di insoddisfazione cronica, possano influenzare il sistema nervoso simpatico e i relativi neurotrasmettitori.
Attualmente, il trattamento farmacologico più diffuso per la cura della fibromialgia è la terapia con gli antidepressivi SSRI (paroxetina, fluoxetina, ecc.) che hanno effetti sull’astenia e sull’insonnia.
Altri farmaci che vengono correntemente utilizzati sono gli antiepilettici (come il gabapentin o il suo derivato pregabalin), gli analgesici centrali (tramadolo e codeina/paracetamolo) e alcuni antiparkinsoniani (come il pramipexolo). Grande interesse sta poi suscitando una nuova classe di farmaci antidepressivi, i farmaci inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI), i quali agiscono su di un più ampio spettro di neurotrasmettitori rispetto agli SSRI.
Da ricordare, anche i sali di magnesio che hanno un importante ruolo nel metabolismo muscolare. Al contrario, i cortisonici sono inefficaci e dovrebbero essere evitati per i loro potenziali effetti collaterali.
Alla terapia farmacologica della fibromialgia, sempre più spesso, vengono associati altri interventi psicologici e motori. Programmi specifici di allenamento fisico, tecniche di rilassamento, programmi di assertività, gestione dell’ansia e di consapevolezza emotiva.
Servono inoltre programmi educativi per aiutare il paziente a comprendere la malattia e imparare a conviverci. È utile inoltre consultare un terapista della riabilitazione che aiuti a stabilire uno specifico programma di esercizi per migliorare la postura, la flessibilità e la forma fisica.
Anche le attività aerobiche come camminare, andare in bicicletta, nuotare o fare esercizi in acqua sono utili per migliorare il livello di forma fisica.
Infine, i programmi di consapevolezza emotiva, di assertività e di gestione dell’ansia, propri della terapia cognitivo comportamentale, possono sicuramente contribuire al miglioramento della sintomatologia connessa alla fibromialgia.
Acquisire consapevolezza di quelle che sono le difficoltà e i potenziali motivi di apprensione e tensione, oltre che migliorare la capacità di gestirli e affrontarli, permette di raggiungere una maggiore tranquillità psichica che riduce la tensione muscolare e le sensazioni dolorose.
Negli ultimi anni si stanno sviluppando sempre di più trattamenti mindfulness-based nella pratica clinica della psicoterapia cognitivo comportamentale. La letteratura scientifica sembra evidenziare l’efficacia di programmi di gruppo di riduzione dello stress basati sulla mindfulness (MBSR) nella fibromialgia.
Gli studi dimostrano come la pratica della meditazione aiuti a migliorare la qualità del sonno, l’ansia, il tono dell’umore. Essa riduce l’impatto del dolore nella vita delle persone. Le aiuta ad accettare l’esperienza dolorosa come realtà non eliminabile, ma con la quale è possibile convivere continuando a condurre una vita dignitosa.
Anche il trattamento basato sull’Acceptance and Committment Therapy (ACT) per il dolore cronico può essere efficace nell’aiutare le persone con fibromialgia. Aiuta a modificare la relazione con il dolore, abbandonando ‘la lotta’ con esso e iniziando ad intraprendere azioni impegnate, in direzione di quello che è davvero importante e vitale per loro.
Le abilità che vengono insegnate nei protocolli ACT sono quelle di mindfulness, accettazione e defusione. L’idea è quella di imparare a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso.
L’International Association for the Study of Pain (IASP, 1979) definisce il dolore come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associate a danno tissutale in atto o potenziale, o descritta in termini di danno.
Come si evince dalla definizione dell’ IASP, il dolore è il prodotto di due componenti, la componente percettiva (o nocicezione) che consente la ricezione e il trasporto al SNC di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo e quella esperienziale (del tutto privata e soggettiva) che è lo stato psichico collegato alla percezione di una sensazione dolorosa. In questa seconda componente entrano in gioco fattori emozionali, cognitivi, socio-culturali e comportamentali che determineranno la reazione del tutto peculiare dell’individuo all’esperienza dolorosa stessa.
Per dolore cronico s’intende “un dolore che persiste più a lungo del corso naturale della guarigione che si associa a un particolare tipo di danno o di malattia” (Bonica, 1953). Mentre il dolore acuto è considerato un sintomo di una malattia sottostante, il dolore cronico presenta caratteristiche tali da poter essere definito esso stesso una malattia.
Nell’esperienza medica il dolore cronico rappresenta una tra le manifestazioni più importanti della malattia; inoltre, fra i sintomi, è quello che tende a minare maggiormente la qualità di vita. Una sua gestione errata o del tutto assente crea conseguenze fisiche, psicologiche e sociali molto importanti e, se si calcolano le giornate lavorative perse, comporta un’importante ricaduta economica. Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che la forma di dolore più invalidante, quella cronica, colpisce circa il 25-30% della popolazione, si comprende come l’assistenza di questo aspetto clinico sia una vera e propria priorità per il nostro sistema sanitario.
Le principali cause di dolore cronico sono malattie come i tumori, in quel caso parliamo di dolore oncologico, malattie reumatiche come la fibromialgia, l’artrite reumatoide, l’osteoartrosi, lesioni ai nervi e danni muscolari che non riescono a raggiungere una guarigione completa. Comunemente vengono distinti due tipologie di dolore cronico a seconda della localizzazione del danno:
Tale distinzione è importante ai fini della terapia, in quanto i farmaci utilizzati per il dolore nocicettivo, come i FANS, non sono efficaci sul dolore neuropatico, per il quale possono invece essere indicati farmaci antidepressivi o farmaci antiepilettici come il gabapentin.
Il dolore ha una funzione fondamentale per la sopravvivenza sia nell’uomo che nell’animale, in quanto svolge la funzione di segnale di allarme rispetto alla necessità di intraprendere un’azione (attacco/fuga) a seguito di un’aggressione o di un danno all’integrità fisica. I nocicettori sono presenti nella totalità degli organismi viventi non vegetali e sono deputati a segnalare la presenza di stimoli dolorifici, sono pertanto fondamentali per la sopravvivenza. Quando il dolore diventa cronico, viene meno la sua funzione biologica di segnale d’allarme utile per la sopravvivenza e diventa esso stesso causa di sofferenza.
Sebbene numerosi approcci siano attualmente disponibili per il trattamento delle diverse forme di dolore cronico, sembra che gli analgesici più potenti attualmente disponibili non riducano il dolore di oltre il 30-40% in non più del 50% dei pazienti (Turk, 2002). Di conseguenza, approcci psicologici complementari che possano aiutare i pazienti affetti da dolore cronico a relazionarsi con il dolore in maniera più adattiva e flessibile, appaiono quanto mai necessari.
Tale necessità appare particolarmente importante se considerata nel contesto delle recenti evidenze scientifiche che suggeriscono come la relazione che un soggetto ha con la sintomatologia dolorosa influenzi l’intensità e le limitazioni correlate al dolore stesso.
Ci sono diverse evidenze di efficacia dell’Acceptance and Committment Therapy (ACT) – una forma recente di terapia cognitivo comportamentale – nel trattamento del dolore cronico (McCracken et. al., 2005). Vowles & Sorrell (2007) hanno creato un protocollo ACT di gruppo per il trattamento del dolore cronico strutturato in 8 incontri, che si propone di insegnare diverse abilità che hanno tutte l’obiettivo di modificare il rapporto che le persone hanno con il proprio dolore, dando loro l’opportunità di iniziare a vivere una vita dignitosa, in linea con ciò che conta davvero per loro.
Le abilità che vengono insegnate sono le abilità di mindfulness, accettazione e defusione. La mindfulness è la capacità di porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante (Kabat-Zinn, 1994). Si tratta, cioè, di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento dopo momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.
La defusione è una delle componenti fondamentali dell’ACT. Imparare a defondere dai propri pensieri, significa imparare a prendere distanza da essi, smettendo di trattarli come verità assolute o come guida dei nostri comportamenti. Le tecniche di defusione non servono per eliminare o controllare il dolore, ma per essere presenti nel qui e ora, in un modo più ampio e flessibile.
L’idea è quella di imparare a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso. Imparare a relazionarsi in modo più flessibile, disponibile e accettante nei confronti del proprio dolore, significa eliminare quella parte di sofferenza psichica derivante dalla continua lotta con la propria esperienza dolorosa, e poter quindi beneficiare di un notevole miglioramento in termini di qualità di vita.
Vi sono persone per le quali la tendenza ad affaticarsi facilmente diventa il problema principale, coloro che soffrono di cosiddetta fatica cronica.
Sicuramente la maggior parte di noi si collocherebbe in questo gruppo, almeno considerando certe fasi della nostra vita. In realtà per le persone affette da questo disturbo la problematica è molto più seria.
I sintomi sono molteplici ed eterogenei:
Il quadro non sembrerebbe così raro se consideriamo che solo negli Stati Uniti il disturbo coinvolge circa un milione di persone, tra adulti e bambini.
Spesso riguarda persone appartenenti a minoranze etniche o razziali o di basso livello socio-economico.
Gli esami standard di laboratorio quasi sempre non rilevano anomalie e questo spiega il perché capita che a volte le persone affette da tale quadro possano essere considerate simulatori, depressi o soggetti “psicosomatici”.
La diagnosi differenziale con un disturbo depressivo potrebbe essere fatta chiedendo al soggetto: “Cosa faresti se tu non fossi malato?”. Nei disturbi depressivi di solito la persona non saprebbe cosa rispondere. A differenza dei soggetti con affaticamento cronico che invece elencano molteplici attività che ritengono piacevoli e che vorrebbero svolgere.
Nella comunità scientifica vi sono studiosi che considerano il quadro specifico, autonomo, chiaro nelle sue manifestazioni, dandogli così una dignità d’esistenza. Altri ritengono invece che non vi siano elementi sufficienti per parlare di una sindrome da fatica cronica chiara e ben definita, negandone anche l’esistenza.
Le persone affette da tali sintomi in media vengono visitate da almeno 4 medici prima di ricevere la diagnosi specifica. La diagnosi può essere formulata anche dopo un lasso di tempo che va da 1 a 10 anni dall’esordio.
Il nome di sindrome da fatica cronica iniziò ad essere impiegato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso negli USA; in Gran Bretagna, Canada ed altri paesi per lo stesso corteo sintomatico è stata preferita la dicitura “Encefalomielite mialgica” (ME).
Molti pazienti non accettano di buon grado che il loro disturbo venga definito “sindrome da fatica cronica”. Questo perché ritengono che l’espressione stessa banalizzi un quadro che può essere anche molto grave e invalidante, certamente molto più di un semplice iper-affaticamento.
Nella comunità scientifica si è cercato di trovare un compromesso nel dare un nome a questo disturbo, impiegando il termine ME/CFS. Ciò porrebbe l’attenzione anche sulla componente biologica e non solo sull’affaticamento cronico.
A breve saranno aggiornati i criteri diagnostici per tale disturbo e con molta probabilità verrà modificata anche l’etichetta diagnostica, proprio alla luce dei nuovi dati provenienti dalla ricerca biologica.
Sembra infatti che il disturbo derivi da una risposta abnorme del sistema immunitario a un numero elevato di agenti ambientali o infettivi. Questa verrebbe a determinare uno stato di infiammazione cronica, una disregolazione del sistema nervoso autonomo, una disfunzione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene con conseguente disfunzione neuroendocrina.
E’ stata osservata una ridotta attività citotossica delle cellule natural killer ed un innalzamento dei livelli di citochine pro-infiammatorie.
Una predisposizione genetica sarebbe alla base dell’attivazione eccessiva delle risposte infiammatorie a stimoli ambientali minimi.
Altre indagini effettuate a livello intracranico indicherebbero un’atrofia della sostanza bianca, bilateralmente, a livello di alcune aree cerebrali.
Purtroppo tutti questi dati non consentono al momento di formulare diagnosi certe o di individuare il disturbo nelle fasi precoci in modo da poter attuare una profilassi.
Così come al momento non vi sono terapie specifiche: l’ipotesi infiammatoria ha spinto a impiegare farmaci antinfiammatori. A volte vengono impiegati gli antidepressivi perché innalzerebbero la soglia del dolore.
Sono stati osservati miglioramenti anche con psicoterapie cognitivo-comportamentali e con lo svolgimento di esercizi fisici da svolgere gradualmente. Anche se molte volte i pazienti rifiutano questo tipo di approccio perché non ritengono che il problema possa derivare da aspetti psicologici o possa migliorare con psicoterapie.
Credo che questo disturbo sia paradigmatico della scissione, a mio avviso errata, che ancora permane tra mente e soma; come se l’essere umano possa essere colto solo in una delle due componenti.
Lo pensano i clinici che leggono il disturbo come un problema esclusivamente su base psicogena, lo pensano i pazienti che rifiutano qualsiasi ipotesi che lo stato psichico possa influenzare la componente fisica.
In realtà corpo e cervello funzionano come un tutt’uno e si influenzano reciprocamente. Non ha senso continuare con scissioni frutto di un pensiero cartesiano che ha avuto la sua grande importanza nella storia occidentale ma che alla luce del nostro presente andrebbe rivisto.
Probabilmente la psiconeuroendocrinologia, nel riuscire a cogliere meglio di altre discipline l’unione “mente-corpo” potrà fornirci qualche elemento ulteriore di riflessione.
Almeno me lo auguro.
Quando si parla di stanchezza cronica si riferisce a una spossatezza molto grave, sia mentale che fisica. Questa si determina anche con uno sforzo fisico minimo e differisce dalla sonnolenza e dalla mancanza di motivazione.
E’ una situazione che può accompagnarsi a svariate situazioni sia fisiologiche che patologiche.
normale essere affaticati dopo un intenso sforzo fisico o psichico, anche se la qualità della stanchezza nei due casi è diversa.
Ma è normale nella misura in cui la persona riesce a recuperare spontaneamente e pienamente la situazione di benessere che precedeva l’episodio “affaticante”.
Il recupero, quindi, perché la stanchezza sia considerata normale, deve essere completo e raggiunto in tempi rapidi. Si può parlare, in questo caso, di forma “acuta” di stanchezza e non di stanchezza cronica.
L’accumulo della stanchezza nel tempo è invece segno di cronicizzazione.
Si tratta di un disturbo complesso caratterizzato da un senso di fatica persistente, non spiegato da alcuna condizione medica.
Per essere considerata stanchezza cronica e patologica, questa deve essere percepita dal paziente come inusuale o anormale; del tutto sproporzionata rispetto al grado di esercizio o di attività della persona, e non in grado di regredire né con il riposo né con il sonno.
Oltre al senso di fatica (sintomo principale) è caratterizzata da una serie di sintomi secondari:
Fondamentalmente, si possono osservare due situazioni paradigmatiche.
In un primo caso, probabilmente il più comune, l’accumulo della stanchezza è il segno della cronicizzazione della situazione “stressante” che ne è alla base; è la situazione più frequentemente osservata nella forma di stanchezza cronica che si accompagna all’eccesso di stimoli psicofisici.
Nel secondo caso, la stanchezza si cronicizza in assenza di un significativo stimolo cronico di tipo fisico o psichico; in questo caso, la “stanchezza” diventa a pieno titolo il sintomo di una malattia che va sempre attentamente indagata (ipotiroidismo, epatite B o C cronica, tumori).
Se si esclude l’esistenza di condizioni mediche patologiche, la stanchezza cronica può essere un sintomo associato a fibromialgia, stress, sindromi ansiose e depressive, anoressia nervosa, abuso di sostanze alcoliche.
La terapia consigliata, in questi ultimi casi, è un intervento psicoterapeutico mirato di tipo cognitivo-comportamentale.
In particolare la terapia-cognitivo-comportamentale si occupa dei fattori che possono predisporre, scatenare e mantenere i sintomi. La ricerca mostra che i cambiamenti nei comportamenti di evitamento e nelle relative credenze sono associati ad un buon esito della terapia.
La cefalea tensiva è la forma più diffusa di “mal di testa”. L’insorgenza della cefalea tensiva è nell’età giovanile, con un successivo declino nell’età presenile.
Questo tipo di mal di testa, può essere sia episodico (se capita raramente), sia cronico, se si presenta per più di 15 giorni in un mese o per oltre 6 mesi l’anno. La forma episodica è causata da sforzi o errori di postura, mentre quella cronica dipende da modificazioni funzionali del sistema nervoso centrale.
Le principali caratteristiche della cefalea tensiva sono:
Le cause della cefalea tensiva non sempre sono individuabili, tuttavia se si esclude la presenza di disfunzioni oromandibolari o del cavo orale e l’abuso di alcuni farmaci, occorre necessariamente prendere in considerazione la possibilità che il sintomo sia legato a stress psicosociali intensi, disturbi d’ansia o depressivi.
La causa scatenante induce una contrazione continuativa dei muscoli intorno al capo e al collo determinando un danno a livello dei tessuti e quindi un processo infiammatorio.
Nelle persone che soffrono spesso di cefalea tensiva, i meccanismi di controllo di questo percorso non funzionano in maniera corretta. Questo provoca un’ulteriore contrazione muscolare determinando nuovamente uno stimolo doloroso e creando, quindi, un meccanismo che, se non viene interrotto, rischia di alimentasi e amplificarsi. In questi casi, può essere utile intervenire con un aiuto farmacologico (analgesico) che interrompa ai primi sintomi questo flusso.
La terapia della cefalea tensiva è di tipo multidisciplinare: farmaci miorilassanti, diario per facilitare l’identificazione dei fattori scatenanti, dei sintomi e della frequenza degli attacchi, regolamentazione dello stile di vita, psicoterapia individuale di tipo cognitivo comportamentale, Biofeedback (EMG, termico) per l’educazione al controllo della tensione muscolare e interrompere il ciclo vizioso “contrattura > dolore > contrattura”, tecniche di rilassamento (training autogeno, yoga, esercizio isometrico, etc.), elettroterapia (rilassamento muscolare e stimolazione rilascio di endorfine), fisioterapia (correzione postura, mobilizzazione, manipolazioni spinali, massaggi).
Non esiste una vera e propria cura della cefalea tensiva, che almeno nella sua predisposizione rimane cronica, ma gli episodi possono essere significativamente ridotti intervenendo sui fattori psicologici che tendono a mantenere l’iperattivazione del sistema nervoso autonomo e la relativa contrazione involontaria della muscolatura coinvolta.
La sindrome del colon irritabile (IBS = irritable bowel sindrome) è una patologia cronica che interessa l’ultimo tratto dell’intestino, detto colon. È caratterizzata da dolore e disagio addominale, alterazione del passaggio delle feci (evacuazione incompleta/sforzo/urgenza) e produzione di muco nelle stesse. Colpisce il 10/30% della popolazione Italiana con un rapporto di 2:3 maggiore nelle donne rispetto agli uomini. La fascia più colpita è tra i 20-50 anni.
Tale condizione sussiste in modo continuativo per almeno 3 mesi ed è spesso associata a gonfiore, meteorismo, flatulenza, nausea, cefalea, ansia, stanchezza, umore depresso, disturbi del sonno e difficoltà di concentrazione.
L’attività intestinale spesso è caratterizzata dall’alternarsi di periodi di stipsi e diarrea. In alcuni casi di colon irritabile il dolore è saltuario e si risolve con la defecazione in altri invece si nota una diarrea “urgente”, non dolorosa, in concomitanza con i pasti.
Comunemente si parla di colite, termine generico per indicare un’infiammazione del colon. Anche se in realtà ne esistono di diversi tipi la colite psicosomatica (o colon irritabile) è quella più diffusa (e in forte aumento nella popolazione).
Tradizionalmente, in medicina, la sindrome del colon irritabile è una diagnosi di esclusione. In assenza di un test di laboratorio in grado di rilevare la colite, resta una patologia indefinita spesso difficile da diagnosticare.
I sintomi del colon irritabile sono diversi da soggetto a soggetto e questo rende più difficoltosa la diagnosi da parte del medico, che deve escludere patologie simili come diverticolite, morbo di Crohn, ecc.
Le cause che provocano questa malattia non sono ancora del tutto chiare, anche se dai risultati di numerose ricerche scientifiche sembra ormai nota la correlazione diretta tra la colite psicosomatica e il ripetersi nel tempo di condizioni di stress, ansia, emozioni negative nella vita del paziente.
Questi fattori psicologici sarebbero a loro volta intensificati da uno stile di vita sedentario, alimentazione disordinata e povera di fibre, assunzione di alcol, caffeina, fumo, situazioni molto comuni nella nostra società.
La letteratura evidenzia che l’assetto psicologico del soggetto ha un ruolo determinante nella patogenesi della colite. Perfezionismo, autocritica, catastrofismo e difficoltà ad esprimere bisogni ed emozioni rappresentano tratti personologici spesso associati alla sindrome.
Lo stress inoltre risulta essere un fattore precipitante l’insorgenza della patologia stessa.
Quest’ultimo, se ripetuto, potrebbe portare ad un indebolimento del sistema immunitario, ad una ipersensibilità del colon e ad una maggior probabilità di contrarre infezioni. Tutti aspetti che si ritrovano in pazienti affetti da tale patologia e che ne spiegano le concause.
I sintomi stessi infine possono costituire causa di ansia, stati emotivi negativi che alimentano e mantengono il circolo vizioso alla base della sindrome.
Una predisposizione genetica infine potrebbe costituire un fattore di vulnerabilità insita nel soggetto stesso al colon irritabile (è stato ipotizzato il coinvolgimento del cromosoma 9 e degli estrogeni)
La sindrome del colon irritabile (o colite), dunque, è ormai considerata un disturbo a base non organica e fa parte di tutta quella vasta gamma di disturbi psicosomatici.
La teoria dei 2 cervelli riconosce un collegamento tra il sistema nervoso centrale e l’intestino che bene descrive il legame tra psiche e soma insito in tale sindrome.
Non esiste una cura efficace al 100% e la cura della colite psicosomatica è prevalentemente mirata alla riduzione dei sintomi del colon irritabile.
E’ utile modificare la dieta, introducendo un apporto maggiore di fibre e di liquidi, ed evitando alimenti a rischio (es. formaggi stagionati, insaccati, frutta con semi, melone, legumi, agrumi, funghi e bibite gassate). Serve anche cambiare stile di vita, incrementando l’esercizio fisico.
Farmaci come antispastici, antidiarroici e lassativi vanno limitati all’effettivo bisogno nei periodi di crisi acuta. Non devono essere usati troppo a lungo poiché causano assuefazione. In generale, comunque, queste indicazioni hanno effetti modesti e temporanei.
La cura del colon irritabile passa inevitabilmente attraverso un buon percorso di psicoterapia. Tramite questo il paziente può apprendere strategie di gestione dello stress e identificare i fattori che mantengono l’iperattivazione del sistema nervoso autonomo. Quest’ultimo è infatti responsabile delle contrazioni involontarie della muscolatura intestinale, che producono i sintomi della colite.
La dermatite è una patologia che riguarda la pelle e che solitamente consiste in una reazione infiammatoria che si manifesta sotto forma di irritazione. La dermatite può essere o meno di natura contagiosa (se non lo è si parla anche di eczema). Le cause possono essere molto varie e diversificate e, in base ad esse, la dermatite assume una differente natura e, conseguentemente, richiede diversi tipi di trattamento:
La dermatite può anche essere il risultato di uno stato di sofferenza interno all’organismo, quindi avere cause:
In quest’ultimo caso, essa può essere una sorta di reazione di difesa dell’organismo verso particolari processi endogeni, che possano causare sofferenza all’organismo stesso (per esempio, situazioni di stress elevato possono causare una reazione simile e dare origine, o acutizzare quando già presente, una forma di dermatite, in particolare la forma conosciuta come psoriasi). Si parla quindi di dermatite psicosomatica quando non esistono riconosciute cause organiche che la determinino.
Spesso, quindi, le dermatiti tendono ad acutizzarsi in situazioni di stress: molti studi confermano infatti come i cosiddetti “ormoni dello stress” (come il cortisolo) abbiano il potere di stimolare ulteriormente la risposta immunitaria all’irritazione.
Qualora si soffra di dermatite psicosomatica, è necessario intervenire indirettamente su di essa, riducendo i suddetti fattori di stress che la scatenano. Può essere saggio utilizzare i sintomi della dermatite come un campanello di allarme, che ci avvisa che il nostro organismo è emotivamente in difficoltà, per poter intervenire, meglio se con il supporto di uno psicoterapeuta, al fine di ridurre il disagio psicofisico.